All’interno di un percorso di psicoterapia avvengono le cose più svariate. Cosa accada di preciso credo che nessuno possa saperlo, non possiamo parlare di scienza misurabile e riproducibile, per quanto molti si sforzino di farlo. Accade che due persone si incontrano. Spesso e auspicabilmente una, quella che chiede aiuto, con una confusione maggiore e un grado di consapevolezza di se stesso minore, e l’altra, quella che l’aiuto dovrebbe darlo, con – diciamo – una maggior conoscenza di sé, perché ha svolto a sua volta una o più psicoterapie (e anche studiato). Perché la formazione si fa nella vita e nell’esperienza personale di ciò che si va poi a proporre agli altri.
Queste due persone quindi iniziano a conoscersi, a farsi delle idee sull’altro. Idee che spesso vengono da noi stessi, da come vorremmo che l’altro fosse o da cosa crediamo che pensi di noi.
E queste due persone partono alla ricerca della comprensione della vita di uno dei due. Partono per un viaggio intimo e impervio, costellato di trappole ma anche, si spera, di un carretto sufficientemente solido per resistervi. Se il mezzo è solido allora ci si potrà permettere di andare a vedere cosa di noi ci spaventa, cosa non ci piace, con il sentore che questo ci sarà utile. Si penserà che forse conoscendo i nostri lati oscuri ci si possa sentire meglio…Cominceremo ad apprezzare cose impensabili, tipo che anche star male è importante, fa parte della vita e non si può negare. Che non siamo solo luce, coscienza, volontà, che esiste un altro me, che spesso agisce al posto mio e che non conviene soffocarlo perché è una grande risorsa trasformativa. Che questo altro me si manifesta attraverso sintomi spiacevoli, ma anche attraverso intuizioni che chissà da dove son venute, o attraverso azioni poco consapevoli, attraverso immagini e fantasie. Attraverso i sogni. Quando la nostra parte razionale, cosciente, vigile, attiva, si spenge, il potere delle immagini interiori si manifesta e ci racconta l’altra parte di noi, cosa accade dentro di noi mentre noi pensiamo a cosa accade fuori da noi.
La psicoterapia analitica spesso è anche questo, una conversazione sui sogni, il tentativo di estraniarsi dalla quotidianità, da cosa ho fatto questa settimana e perché, lo spostamento dell’occhio di bue dall’attore allo spettatore, l’obbligo di fermarsi. Un’ora la settimana di silenzio.
In questo silenzio cominciano a cadere alcune costruzioni sociali, perde potere la necessità di uniformarsi a un modello collettivo, le cose non sono più inevitabili, inesorabili, a parte una, che impariamo a non negare.
Inizialmente è anche un giudice implacabile – l’analisi non l’analista – che ti costringe a soffermarti su cosa stai facendo e perché, a non poter far finta di nulla. Ma poi diventa una sospensione del giudizio, la convinzione che non ci sia un giusto e uno sbagliato a priori ma che ci sia un giusto e uno sbagliato per me, che poi ci sta che coincida anche con quello di qualcun altro. Diventa comunque una relativizzazione della morale o quantomeno un occhio vigile sulla salvaguardia dell’individualità e ci permette, a volte, di riuscire a trovare il coraggio di fare scelte che da soli non saremo riusciti a fare.