Ci sono momenti, nelle nostre vite, in cui i punti cardinali sembrano non ritrovarsi più. Si tratta di momenti in cui abbiamo smarrito il contatto più intimo con noi stessi, in cui abbiamo il sentore che la vita ci abbia vissuti, come se fossimo stati portati da un fiume in piena. Abbiamo una lontana percezione che qualcosa in noi stia cambiando, non siamo più convinti come prima della strada che abbiamo intrapreso, della nostra identità sociale, che la velocità a cui stiamo andando sia quella naturale, che veramente si stia perseguendo il nostro bene. Accade che il mito della nostra efficienza, bellezza, indistruttibilità, venga messo seriamente in crisi dall’angoscia della nostra finitezza. In questi momenti di incertezza spesso cerchiamo di far finta di nulla, di pensare che passerà, o di farsi prescrivere qualche gocciolina. Così ci hanno insegnato. Curare i sintomi. Per molti questo è più che sufficiente, la mano che tiene chiuso il coperchio è più forte di quello che bolle in pentola. Esistono però anche un buon numero di casi in cui l’energia vitale della persona è tale che l’inconscio insisterà nel convincere che qualcosa si può ancora fare. Lo farà in un modo un po’ bislacco, a volte sinistro, con il linguaggio di chi non segue sentieri logici e razionali ma solo quello dell’urgenza di comunicare.
E l’inconscio può comunicare attraverso sintomi quali attacchi d’ansia, palpitazioni, senso di soffocamento, paura di morire. E, come conseguenza, generare timore di luoghi affollati, di spazi aperti. Nei casi estremi panico. E ritiro sociale.
Proviamo ad addentrarci nella questione considerando la specie umana alla stregua di un singolo individuo, come un macrocosmo in cui si agitano e concorrono istanze e personalità diverse, proprio come accade dentro ognuno di noi. Se utilizziamo questo tipo di ottica la corrispondenza ci apparirà piuttosto curiosa. L’umanità sembra vittima di qualcosa che l’ha completamente paralizzata, che le toglie il respiro, che la tiene imbrigliata e nascosta, nel timore di spazi aperti e relazioni. Vive in un’angoscia persecutoria, che proietta in qualcosa di molto simile ad un oggetto fobico. È vero, un elemento spaventoso c’è, la paura non è totalmente immotivata, ma in molti casi è sproporzionata rispetto all’effettivo pericolo. A prescindere dalle motivazioni oggettive di questa crisi, l’aspetto simbolico sembra indicare la possibilità di un momento trasformativo. Un virus che toglie il respiro e genera panico mette di fronte ad una scelta. L’inconscio collettivo si mostra nella sua veste globale, intimando di fermarsi un attimo, con calma, e riflettere.
A livello individuale, in questi casi, le persone possono intraprendere due strade distinte. La prima è orientata maggiormente alla repressione dell’impulso, che si manifesta nella speranza che tutto finisca presto, nel cercare rimedi temporanei e farmaci capaci di alleviare la sofferenza. L’ottica dominante è quella di poter tornare presto alle solite abitudini, di ricercare il sentiero già solcato per sentirsi al sicuro, ricorrendo a soluzioni rapide e veloci che facciano dimenticare presto l’accaduto, che curino i sintomi. Che permettano di rimuovere il trauma, nella speranza che non si ripresenti.
Un’alternativa più complessa riguarda invece l’interrogarsi sul reale motivo che soggiace al disorientamento, nel tentativo di smontare le impalcature del nostro edificio per vedere realmente cosa c’è dentro, e capire come e perché è stato costruito. Si prospetta l’occasione di un cambiamento, la possibilità di andare a vedere nell’intimo se esiste una direzione personale e nascosta, e quale sia la velocità con cui poterla percorrere. All’interno di un percorso analitico risulta spesso difficile capire l’importanza del tempo, il suo moto circolare e prolungato, che permette di allentare la membrana tra conscio e inconscio, che prepara il terreno per far germogliare i semi che giacciono nel profondo. Serve tempo per dar fiducia a quella parte di noi che conosciamo meno ma che, con buona probabilità, indica il nostro cammino. Nel tentativo di riallinearsi con il tempo della natura, che si sviluppa in modo circolare e muta senza quasi mostrarsi. I cambiamenti spesso si notano a posteriori, destando meraviglia al solo fatto di notarli.
Così come nel caso individuale, anche dal punto di vista collettivo si presentano due strade ben distinte. La prima, attualmente più quotata, evidenzia l’affanno nel procurarsi cure, pone l’accento sulla corsa sfrenata a vaccini e medicamenti, con l’intento e la speranza di tornare il prima possibile ad una restitutio ad integrum, mossa da un’isterica visione di onnipotenza della tecnica. Un atteggiamento di rimozione, che vede nella salute esclusivamente l’assenza di sintomi fisici, che segue la direzione unilaterale della coscienza. Questo atteggiamento presta il fianco però alle potenze inconsce, che tenderanno a ripresentarsi, nell’inesorabile ritorno del rimosso.
Al contempo esiste l’opportunità di guardare, seppur con sofferenza, a quella crepa che si è aperta, che provoca dolore ma apre uno spiraglio verso la possibilità di un cambiamento, impedendosi di passarci sopra l’ennesima mano di vernice. I cambiamenti fanno paura e presentano sempre molte resistenze, ma con calma e con costanza è possibile mettere in discussione tutto quello che è sempre stato dato per scontato, come il ruolo egemone dell’essere umano all’interno del pianeta, o ciò che è veramente necessario per sentirsi appagati. E sono i piccoli cambiamenti che possono dare la forza necessaria e la spinta vitale per creare quel circolo virtuoso che sarà percepito solo a posteriori ma che può produrre qualcosa di più grande e radicale. Come piccole personalità della specie umana ognuno di noi ha la possibilità di intraprendere un cammino individuale, che faccia luce sui propri bisogni reali, sui propri talenti, sulla propria libertà di pensiero, che gli permetta di sentirsi in relazione col mondo contagiandolo davvero, nella speranza di essere artefici del proprio destino, sia individuale che collettivo.